Tiziano Salari

 Il testamento di un filosofo.
La seconda nascita di Aldo Giorgio Gargani


Immettersi nella propria forma di vita, Lebensform, raccomanda Wittgenstein che, nonostante dica anche qualcosa di più e di meglio, afferma che se tu non sei d’accordo con la tua forma di vita, la responsabilità dei tuoi nonsensi ricade su di te; entra nella forma di vita, entra nella giustizia, non farti fuorviare dalle domande impossibili o insensate.

Così  si legge in una delle prime pagine di Lo stupore e il caso, libro pubblicato  da Aldo G. Gargani nel 1986, due anni prima di Sguardo e destino(1988) il primo dei tre saggi riuniti con L’altra storia(1990) e Il testo del tempo (1992) nel volume La seconda nascita (2010),Prefazione di Vincenzo Vitiello e Postfazione di Flavio Ermini.(2010). Poche  righe seguenti la frase citata, viene chiamato in causa l’Uomo senza qualità, quando,”dopo aver smarrito il significato di ciò che ordinariamente chiamiamo ‘spirito’ o ‘intelligenza’”, e disperando di poterlo ritrovare”, Ulrich, sentendo la chiamata di esso, “ così come si continua ad amare una donna dalla quale siamo stati traditi tutta la vita senza tuttavia amarla di meno”, riflette su questo paradosso,  fino a che “ ha un incontro nuovo con le cose che, anziché di legno o di pietra, sembravano fatte di un’immoralità grandiosa e delicatissima che nel momento in cui veniva a contatto con lui si trasformava in una profonda commozione morale”.

Vincenzo Vitiello, nella Prefazione, ci dice che il 5 giugno 1999, nell’ambito di un convegno sulle Origini del nichilismo,Gargani recita, a memoria per più di un’ora, un brano dell’Uomo senza qualità. Non ci dice quale, ma mi piace credere  che vertesse sullo stesso paradosso.

Aldo Gargani è morto a Pisa nel 2009, dopo aver discusso e concordato con Flavio Ermini la riunificazione in un unico volume dei tre saggi che erano usciti separatamente, sotto il segno di una continuità della ricerca che era passata “dall’epistemologia alla narrazione”(Vitiello), perché, solo attraverso la narrazione, era forse possibile che si rivelasse il senso di quella “profonda commozione morale” vissuta da Ulrich  in un “incontro nuovo con le cose”. Rovesciamento che andava contro   non solo l’intera tradizione delle teorie filosofiche che vogliono rinchiudere in un discorso tutti gli aspetti della vita umana, fino alla sua conclusione,ma riguardava persino il filosofo d’elezione di Gargani, Wittgenstein,”che ha trascorso una vita intera a rivoluzionare se stesso per rivoluzionare gli altri, a smantellare se stesso per poi demolire le teorie filosofiche altrui”ma “non si è sottratto poi alla tentazione di dire agli uomini, a tutti gli uomini, come si devono comportare”. Fino a mettere in discussione l’adattamento alla propria forma di vita, Lebensform, predicata dal filosofo austriaco.

È strano che a Wittgenstein sia sfuggita la circostanza che nonostante siano immersi nella loro forma di vita, agli uomini riesce sfortunatamente di non adattarsi alla loro forma di vita. E comunque resta il fatto che persino Wittgenstein ha cercato un lieto fine attraverso una filosofia che non sarebbe in realtà una filosofia del lieto fine”(La seconda nascita, p.57).

Questo percorso, attraverso cui Gargani perviene, con modalità tutte sue, ad una “seconda nascita” in analogia coi percorsi e i rovesciamenti di altre esperienze filosofiche del Novecento, ma decisamente spezzando (e in questo consiste la sua originalità), ogni aggancio con un discorso teorico scisso dall’esperienza esistenziale, ha il suo punto di svolta nel soggiorno di Gargani presso l’Accademia delle Scienze e delle Arti di Berlino. È lì”nella grande villa dell’Accademia che sarebbe rimasta tutta” per lui, durante l’estate del 1987, che, piuttosto che portare a termine un lavoro che si trascinava da oltre due anni (e per il quale era stato appunto chiamato all’Accademia), che gli si fa incontro, in modo paradossale, l’esigenza di ritrovare un senso nel tessuto di una vita dedicata alla filosofia. Il fatto è che per ritrovare un senso bisogna uscire dal senso, ed è questa l’esperienza sconvolgente raccontata da Gargani.

“Invece di portare a termine un lavoro che si trascinava ormai da anni e per portare a termine il quale io ero stato espressamente chiamato all’Accademia in quanto esso era stato considerato un lavoro di ‘rilevante interesse per noi ’, cioè per loro, come m’avevano scritto dall’Accademia, il compimento del quale essi tenevano che avesse luogo a Berlino aggiungendo che essi avrebbero tenuto che al termine del mio soggiorno di un anno a Berlino, io lasciassi l’Accademia delle Scienze e delle Arti non soltanto con la mia opera portata a termine ma anche battuta a macchina o stampata dal computer nella sua redazione definitiva, così che io lasciassi Berlino con un’opera perfettamente compiuta anche nei suoi aspetti materiali, io invece nello stesso momento in cui entravo nell’Accademia abbandonavo l’idea di portare a termine il mio lavoro e abbandonavo la mia professione quale l’avevo praticata sino a quel momento, che era stato decisivo, nel quale avevo fatto il mio ingresso nell’Accademia delle Scienze e delle Arti di Berlino”. Ora il passaggio dall’epistemologia alla narrativa, narrativa che pure si vuole fondata sull’esperienza, e non inventata (o inventata solo nella misura in cui si voglia scavare nell’abisso delle più segrete intenzioni), adoperando il linguaggio, da parte di un filosofo che ha riflettuto sul linguaggio lungo tutto l’arco della sua vita professionale, non può avvenire che partendo da quel centro privilegiato dei suoi studi, cioè dalla crisi del soggetto nella cultura mitteleuropea, e dagli autori che l’hanno espressa, non solo teoricamente, come Freud e Wittgenstein, ma vissuta nella vita stessa del linguaggio, da von Hofmannsthal a Kafka, da Musil a Thomas Bernhard. Non è un caso che proprio durante gli anni della stesura del trittico, Gargani abbia scritto La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca (1990), in quanto è proprio attraverso quella frase infinita e impietosa, attraverso cui l’esistenza appare gravata da rituali coercitivi, in un gioco che non descrive e non spiega, ma ruota intorno alla verifica di un possibile senso sempre sfuggente, che meditando su quella frase, Gargani abbia trovato il suo stile narrativo, posto che abbia senso parlare di stile in un’opera di ricerca  autobiografica della verità.

Quindi Gargani opera una svolta nel suo modo di pensare e di scrivere trovandosi a Berlino al Wissenschaftskolleg  nel corso del 1987, svolta che poteva accadere solo lì, al numero 19 di Wallotstrasse, nella lontananza dall’Italia e dalle sedi tradizionali in cui si è svolta la sua vita professionale, come scrive nella Premessa, e poi ruotare intorno a quella Accademia delle Scienze e delle Arti di Berlino mentre lo sguardo penetra nel resto della vita, nel ricordo del padre, nei ricordi d’infanzia, per illuminare il presente, ed è il presente a dominare, ascoltato e reinterpretato attraverso il passato. È dunque all’Accademia delle Scienze e delle Arti di Berlino che avviene la “seconda nascita”.

Per far sì che ciò avvenga”, scrive Ermini nella Postfazione “ è necessario far aderire la ventosa del futuro al principio, rendendoci nuovamente ‘principiali’; restituire la nostra persona alla sua intatta verginità; raccontandoci come per la prima volta.

E la svolta non nasce da domande, da domande che in genere esigono delle risposte, ma dalla rinuncia a porre domande e ricevere risposte, quindi dal rigetto “delle cosiddette teorie filosofiche” che “prescrivono quello che il linguaggio è destinato a fare ed eseguire”(p.54), e senza che la scrittura, nel suo divenire, si ponga una meta, una conclusione, e proprio abbandonando quel lavoro per cui era stato chiamato all’Accademia di Berlino e al quale lavorava da due anni e che proprio lì avrebbe dovuto concludere.

E  la narrativa di Gargani incomincia a interrogarsi sui colleghi dell’Accademia, sugli incontri fatti all’Accademia, sui blocchi esistenziali vissuti dai colleghi dell’Accademia o dei loro amici, sull’aspirazione incondizionata alla libertà che, una volta raggiunta “si rivela la più insopportabile delle condizioni”, come sperimentato da lui stesso “ entrando nell’atrio dell’Accademia delle Scienze e delle Arti di Berlino”, o la rinuncia alla libertà e alla scelta, che diventa anch’essa oppressiva, come dimostra la storia dello psicanalista di Tübingen, riferitagli da Dieter Kessler, che “aveva iniziato una nuova ricerca in collaborazione con una psicoanalista  francese della quale alla fine si era innamorato”, e la cui moglie aveva respinto l’idea che il marito potesse amare due donne contemporaneamente, e costretto a restare a Tübingen. Qualunque siano le ragioni per cui ci si senta oppressi, “la verità è che noi riponiamo maggiore fiducia nella nostra infelicità che non nella nostra libertà” (p.33), sottolinea Gargani pensando allo psicoanalista di Tübingen  e anche alla propria, nella prospettiva di abbandonare la propria professione nel momento stesso che aveva incominciato a percorrere le strade di Berlino, ma soprattutto ad ascoltare i membri dell’Accademia di Berlino. Ho parlato della “frase infinita” di Thomas Bernhard, non quale modello, ma quale eco, sfondo, che consente a Gargani, partendo da un tema sostanzialmente monocorde di variarlo attraverso linee centrifughe in cui è possibile alternare, al racconto in prima persona, con i discorsi, i ricordi e i pensieri dei colleghi dell’Accademia, fino alla ripetizione di frasi (quella di Oppitz, quella di  Silke Eckhart) quali conferme e intensificazione  della vicenda vissuta in prima persona.

Ma la consonanza con Thomas Bernhard, come propaggine estrema di quella cultura austriaca che Gargani aveva assorbito attraverso Wittgenstein, e percorso con Hofmannsthal, Kafka, Musil, e proprio nello stesso periodo, riviveva studiando la “frase infinita” di Thomas Bernhard,si ripercuoteva, nella sua stessa esperienza, non certo come imitazione, ma come approdo ad un’”arte della vita” che diventa “il destino di raccontare senza fine, con parole e azioni senza fine” (p.157)nel vivere “una frase senza fine” all’interno di una vita che “è la progressione inarrestabile di una frase che si complica, che contraddice se stessa” e di cui non ci si rende conto “che questa frase è un destino infinito di frasi, che si sovrappongono le une alle altre e si complicano, e poi non se ne vede la fine”(p.158).Lasciar parlare le frasi, significa rifiutare”qualche miserabile definizione”cioè chiudere in un discorso “circoscritto da tutte le parti” (p.159) l’essenza sfuggente della vita, e rendendoci, come scrive Ermini, nuovamente ‘principiali’. Scrive infatti Gargani: “ L’ascolto dei nostri pensieri che si echeggiano l’un l’altro traccia il destino di una frase, di un’unica frase che spalanca un tempo diverso, il tempo dell’origine” (p.159).

“Ma in tal modo, l’intera vita interiore si struttura nei termini di un processo, di un immane processo interiore”, aveva scritto, ne Lo stupore e il caso, parlando della crisi del soggetto nella cultura mitteleuropea e la cui massima esemplificazione  è appunto Il processo di Kafka. Gargani cita dai Quaderni in ottavo 24 XI 1917 di Kafka: “Prima non capivo perché non ricevessi risposta alla mia domanda, oggi non capisco come mai potessi credere di poter domandare”, commentando come “questa aspirazione a raggiungere la verità, piuttosto che a vivere in essa e secondo essa” sia “ all’origine dell’incertezza della propria posizione nel mondo, nella città e all’interno della propria famiglia”. Questo processo della crisi del soggetto, che ha attraversato tutta la cultura mitteleuropea, da Kafka a Wittgenstein, da Freud a Musil, sembra essere pervenuta al limite estremo nella frase infinita di Thomas Bernhard, fino forse ad imporre la necessità di andare oltre Thomas Bernhard, a quel divenire delle sue frasi senza centro e senza meta, per ritrovare, nell’origine, “il destino di una frase ambivalente ed equivoca che si cerca” (p.159).

E l’origine sembra che si tocchi nell’andare incontro al padre. Già nel Preludio di Sguardo e destino aveva detto che, più che scrivere sul proprio padre, si trattava di scrivere al proprio padre, e che quello era l’unico modo affinché la narrazione si accendesse e la vita si rimettesse in movimento, e cioè che le cose ritornassero nel bagliore della loro infanzia. Ma non è che questo possa essere possibile senza liberarci preventivamente da qualsiasi definizione teorica sulla conclusione della vita umana, e cioè solo aprendoci all’imprevisto della frase ulteriore, e cioè quando in noi nascono“altre parole che scoprono l’errore e il delirio” sulla base dei quali siamo riusciti a sopravvivere, che si rende possibile una svolta, una seconda storia.

E non sembra che tutto ciò possa nascere da una decisione. O meglio, la sola decisione che sembra possibile è quella di accettare l’indecidibilità.  Anche per Gargani, “la lunga abitudine, non solo moderna, di porre l’uomo (in quanto animal rationale) in primo piano in tutto il pensiero occidentale rende arduo pronunciare, in base a una verità totalmente altra e nel senso di una sua fondazione, parole e concetti che sembrano avere un contenuto antropologico-psicologico consolidato” (Heidegger), e che tutto ciò dipenda dal fatto che non si voglia mai porre in questione l’uomo, cioè se stessi, preferendo “rimanere infelici piuttosto che assumere un rapporto di lucidità scientifica con noi stessi” (p.157).Ed è forse questa la ragione per cui, prima di ritrovare lo sguardo del padre, Gargani, nell’Accademia delle Scienze e delle Arti di Berlino, interroga i suoi colleghi artisti e scienziati dell’Accademia, chiedendosi il perché della loro infelicità, e perché abbiano cercato fuori di loro, e non in se stessi, la ragione dell’infelicità.

Quando pensiamo ostruiti da noi stessi, pensiamo in realtà per non pensare, quando pensiamo e siamo occupati e ingombrati da noi stessi,pensiamo in realtà per non pensare,per dirigere i nostri pensieri su qualche cosa fuori di noi, che è la fine dei nostri pensieri, di ogni nostro pensiero” (p.39).

Gargani solleva più problemi di quanti è disposto a risolverne. Il soggetto non viene eliminato, e neppure il rapporto gerarchico fra esso e le cose, soltanto che tale rapporto avviene su piani totalmente discordanti l’uno dall’altro, dato che quanto pensiamo ci accadesse sul piano della realtà, è stato subito rimpiazzato, fin dall’infanzia, “ad opera dei nostri genitori, da un sostituto simbolico del mondo”, e, sulla base di quella prima sostituzione, scrive Gargani, “io non sono mai stato niente di tutto quello che sono stato effettivamente, niente di quello che ho fatto e nemmeno scritto”.Dunque le vite si svolgono contemporaneamente su due piani, o due scene teatrali, e di cui una visibile e l’altra invisibile, e quella invisibile, come l’armonia per Eraclito, è migliore di quella visibile.

Ma non sembra che sia risolutivo, lo sgombrare il campo dal sostituto simbolico del mondo  per afferrare il mondo vero, anche se indubbiamente, senza quel passo, non si arriverebbe mai comunque a sfiorare”il presupposto inespresso di una propria terribile verità” (p.202), a sostituire gli scenari del teatro “allestito dal nostro padre a partire dalla sua unica origine che è stata la paura nei confronti del mondo esterno” (p.203)fino ad essere imprigionati e non capire più nulla, e a fare sempre la stessa cosa.Lo studioso di Wittgenstein, che ha contestato Wittgenstein, ricorda qui l’immagine che ci tiene prigionieri, e dalla quale non possiamo venir fuori, perché giace nel nostro linguaggio, e questo sembra ripetercela inesorabilmente.(Ricerche filosofiche, I,115)E cioè si diventa “muti e sordi” per “la comprensione che crediamo di possedere avendo tesaurizzato un patrimonio culturale” che “è in realtà la nostra cecità di fronte alla nostra incomprensione”. (p.211).

Gargani scava e scava, muovendosi nelle sale dell’Accademia delle Scienze e delle Arti di Berlino. in se stesso e nei vissuti dei colleghi dell’Accademia, mettendo a confronto ciò che uno crede di essere e ciò che è veramente, tra il teatro del mondo che ciascuno si è eretto, e dove crede di muoversi, e il mondo reale. Un grande esercizio di spoliazione, come s’intitola uno dei capitoli (p.211), in cui  viene messa in discussione la rappresentazione del mondo che ciascuno si fa attraverso una serie specifica di definizioni e di relative cristallizzazioni. E il suo sembra essere un grande atto d’accusa contro la cultura, e anche contro se stesso come uomo di cultura,  quale schermo tra la vita falsa e la vera, così come viene quasi esplicitamente detto quando il discorso verte sulle “persone metafisiche”, che non ci sono mai d’aiuto quando ci troviamo “in un reale stato di bisogno”.

Così alle fine noi usciamo doppiamente infelici dal loro incontro, perché oltre alla nostra infelicità subiamo anche quella che loro non mancano mai d’infliggerci, ostentandoci il rigore della loro biblioteca che è in realtà una biblioteca metafisica che loro hanno eretto nel corso degli anni […]

E l’accusa si estende dalle “persone metafisiche” alla scuola, quale principale responsabile nella trasmissione di un’idea falsa di vita e di cultura.

La scuola è un’istituzione parassitaria che sfrutta tutti i testi che non avrebbero mai potuto essere scritti a scuola per farne degli strumenti della persecuzione che ha luogo soltanto a scuola” (p.257).

“La scuola sfrutta i testi di Petrarca, Dante, Goethe e Chaucer per servirsene ogni mattina come strumenti di persecuzione contro i bambini”(p.255).Tutto ciò che è chiuso come sapere costituito, sapere che non si pone più domande “è anche l’origine delle tragedie delle persone, e precisamente delle tragedie più insanabili”, perché, attraverso la scuola, è studiato “allo scopo di provocare la derisione della sofferenza individuale”(p. 256).. A questo sapere, Gargani contrappone quello del padre, che “lasciava che le cose si mostrassero da sole” e cioè “un mondo senza definizioni”(p.259).E non vi è chi non senta qui la lunga eco,da Hugo von Hofmannsthal a Thomas Bernhard, della ricerca di”un nuovo e diverso paradigma di verità”(Aldo G.Gargani, Il filtro creativo, 1999, p.147) che ha avuto il suo battesimo nel Brief di Hofmannsthal, di esperienze che non possono essere consegnate alle definizioni e alle parole.

Si tratta di una scrittura talmente imbevuta e satura di cultura da trapassare cultura e parole e riscoprire il mondo come “un miracolo davanti a noi”Per questo La seconda nascita è un libro da consigliare agli intellettuali tronfi del loro sapere, sia perché trovino il loro interesse nello studio di un autore (“Uno studia Nietzsche, non perché è Nietzsche, non perché è interessato a Nietzsche, ma perché uno trova il suo bene in Nietzsche”, p.277), o nell’abbracciare un’ideologia, fosse pure quella dell’impegno politico o sociale, dell’engagement.

Per questo molto scava Gargani prima di arrivare alla Domanda impossibile (p.279), nella quale si concentrano tutte le inquietudini dell’esistenza, trattandosi di “quel punto nel quale precipitano insieme tutti i nostri desideri e tutte le nostre aspettative”(p.280), e che consiste nella “domanda impossibile dell’amore che si scontra con l’irresistibile incomprensione degli altri”(p.280), e che è  una domanda impossibile in quanto è anche una “domanda tragica” in quanto in grado di far “esplodere un’intera esistenza”(p.281).Tutti sono rimasti sorpresi dal leggere le esperienze di maestro elementare di Wittgenstein, che picchiava con il bastone dei bambini, figli di poveri contadini, in tre villaggi austriaci, in quanto non capivano la matematica avanzata che Wittgenstein pretendeva di insegnare loro. Quale era la  domanda impossibile di Wittgenstein, che faceva sanguinare a furia di bastonate e di schiaffi, per non aprirsi alla sua richiesta impossibile di amore e di tenerezza, i poveri figlioli dei contadini?.

Come sempre accade, anche Wittgenstein ha seviziato le creature del suo amore, dal quale lui era terrorizzato,che quei poveri bambini di quei tre villaggi austriaci non avrebbero avuto nessuna difficoltà a contraccambiargli, ma che lui, Wittgenstein, non voleva che gli fosse contraccambiato e al quale, anzi, lui reagiva con gli schiaffi e le bastonate.

Ma i colleghi dell’Accademia delle scienze e delle arti di Berlino, le “persone metafisiche”, la scuola, Wittgenstein,  il problema della vita sotto qualsiasi forma si presenti, e nel suo legame con la morte”non come ad un lutto, ma come alla porta che sta al margine della nostra vita per farla muovere, per farla essere dunque una vita”(p.285), tutto sembra disporsi  sotto il segno di un’unica cosa fondamentale (“una sola idea, una sola emozione”), il cui passo più difficile da compiere, da riconoscere, è l’attraversamento delle  Frasi di famiglia (p.307), a cui Gargani perviene nelle pagine finali de  L’altra storia: frasi in cui sono rimasti imprigionati i fratelli e la madre dell’autore, e dalle quali, appunto, è possibile rinascere attraverso la scrittura.

Nell’ultimo libro del trittico, Il testo del tempo, il percorso tormentato di analisi interiore approda lentamente a scavare nei luoghi di maggiore intimità e nei paradossi esistenziali, “attraverso i buchi, le lacune e gli abissi che si aprono nel corpo del testo nel quale la scrittura ci racconta” (p.323), e a individuare la necessità di una nuova nascita, di una seconda nascita che, dopo quella determinata dall’atto di procreazione dei nostri genitori “è precisamente la nascita che noi ci diamo da noi stessi raccontando la nostra storia” (p.324), in un certo senso reinventandosi, “per diventare alla fine quello che si è”(p.324).

Attraverso vie  insolite, mi sembra che Gargani pervenga a delineare una svolta non dissimile da quella che Heidegger ha perseguito nei Contributi alla filosofia (Dall’evento),.p.80:

Il pensiero che raggiunge la verità dell’Essere è necessariamente progetto. Fa parte dell’essenza di tale progetto che questo, nel suo compimento e dispiegamento, debba tornare a porsi in ciò che esso stesso ha aperto. Può così sembrare che, laddove domina il progetto, vi siano l’arbitrio e il vagare nell’infondato.

Ma diverso è il metodo di chi affida il senso  della propria ricerca a un nuovo inizio del filosofare e chi a una seconda nascita, in cui rintracciare la propria origine, anche se l’altro inizio, attraverso cui viene esperita la verità  nell’essenziale permanenza dell’Essere, da cui scaturisce l’ente come il vero di un’originaria verità, di cui parla Heidegger,  non è dissimile  da quella “paura”, di cui parla Gargani, che è stata il cemento della sua famiglia, e che traccia legami insuperabili tra il proprio padre e il proprio figlio, a determinare un’essenziale permanenza del dolore e dell’irresolutezza esistenziale.

Afferrare la vita, afferrare l’origine, liberandosi da ogni verità e certezza, fino all’azzeramento e all’individuazione di un fatto primordiale che ci costituisce, e per cui le cose sono accadute secondo una logica estranea e diversa rispetto a quella per cui erano state programmate, fino a determinare un”ritmo della nostra vita che è la cadenza stessa dei temi preverbali della nostra esistenza e che alla fine si rivela come un destino” (p.386), è il fatto per cui “la cognizione è la più grande delusione della nostra vita, perché ogni cognizione, contrariamente alle nostre aspettazioni,prima o dopo ci conduce al male che ci è familiare” (p.387).All’essenziale permanenza del dolore esistenziale e della solitudine.

La seconda nascita viene così ad essere  uno  dei documenti più significativi  della filosofia del nostro tempo, il testamento di un filosofo che ha messo in discussione il proprio linguaggio, le proprie certezze, la propria rappresentazione pubblica, alla ricerca di un nucleo originario che rivelasse non tanto la verità, quanto la menzogna sulla quale ogni vita si costruisce. Per scoprire alla fine che lo stesso lavoro di spoliazione, che lo ha spinto ad uscire da se stesso per compiere uno sforzo di verità, altro non è paradossalmente che un grado più alto di simulazione per cui è diventato esso stesso attore della messa in scena del suo problema con la verità.

 

Bibliografia essenziale

Aldo. G. Gargani, Lo stupore e il caso, Laterza, 1986
Aldo G. Gargani,  Sguardo e destino, Laterza, 1988
Aldo G. Gargani, L’altra storia, Il Saggiatore, 1990
Aldo G. Gargani, La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca, Laterza,1990
Aldo G. Gargani, Il testo del tempo, Laterza, 1992
Aldo G. Gargani, La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca, Laterza,1990
Aldo G.Gargani, Il filtro creativo, Laterza,1999
Aldo G. Gargani, La seconda nascita, Moretti & Vitali 2010 (riunisce i tre volumi precedenti)